Vanni Codeluppi ci svela i segreti della comunicazione.
I SEGRETI DELLA COMUNICAZIONE
Durante il periodo di quarantena preventiva per il Covid-19 abbiamo avuto la possibilità di tenere un’intervista con il professor Vanni Codeluppi, sociologo e docente all’Università IULM di Milano. Affrontando diverse tematiche, dalle strategia di comunicazione alle strategie di marketing, si è parlato di come le grandi aziende si muovono nel mondo pubblicitario contemporaneo e di come anche il coronavirus può essere uno strumento attraverso cui veicolare messaggi per le proprie aziende.
Abbiamo poi chiesto al noto studioso di pubblicità se anche le piccole aziende possono giovare di determinati strumenti per edificare strategie utili ed efficaci, ti invitiamo quindi a proseguire nella lettura per scoprire cosa ci ha riferito.
L’INTERVISTA A VANNI CODELUPPI
A: Buon pomeriggio, come sta in questo momento di allerta cornavirus?
C: Abbastanza bene, compatibilmente con la clausura a cui siamo costretti.
A: Clausura che ha dato modo a differenti brand e personaggi del mondo dello spettacolo di essere comunque sotto i riflettori.
C: Stanno portando avanti ottime strategie di marketing, in effetti.
A: Ma su questo torneremo dopo, ora le porrei la prima domanda…
C: Certo.
A: Nel suo libro Persuasi e felici racconta molto dettagliatamente come in base al posizionamento del brand le strategie comunicative siano diverse. In che modo il lusso mira a posizionarsi al di sopra del consumatore, cercando anche di mantenere un certo distacco?
C: Più che porsi il problema di costruire una relazione con il consumatore le marche del lusso parlano del loro mondo. È per un’esigenza di mercato che si collocano ad un livello alto, e questo serve loro anche per poter giustificare un prezzo elevato dei prodotti. La connotazione principale che ogni brand del lusso cerca di attribuirsi è quella del prestigio, del livello sociale elevato. E ciò determina un’importanza maggiore rispetto al consumatore. Tutto l’insieme di strumenti che vengono utilizzati, sia sul piano del marketing che quello della comunicazione, ha la finalità di costruire un posizionamento alto. Questo sta a significare che si creerà una grande distanza tra la marca e il consumatore, e il dialogo tra loro sarà molto limitato. Anche se oggigiorno sono costretti ad utilizzare strumenti digitali che hanno, almeno all’apparenza, l’obbiettivo di ridurre le distanze e avvicinare le parti. Non a caso i grandi marchi del lusso hanno impiegato molto tempo ad adottare i mezzi di internet e del web, perché ritenevano, e forse lo fanno tutt’ora, di non avere bisogno di questi strumenti orizzontali e paritari. Tradizionalmente queste marche si ritengono superiori e faticano a creare quel tipo di relazione che il web esigerebbe, perché preferiscono alimentare questa loro superiorità che li costringe ad essere autoreferenziali e distanti. E così fanno anche i divi di oggi. Nonostante le piattaforme siano mutate nel tempo e si sia passato dal cinema ai social, anche i divi contemporanei parlano e si interfacciano sempre con un senso di superiorità rispetto ai propri followers. È vero che non sono più irraggiungibili come lo erano negli anni Quaranta nelle ville di Hollywood, ma anche se ci sembrano più vicini attraverso gli smartphone, non fanno altro che parlare di sé stessi: non cercano uno scambio con chi li guarda, ma parlano del proprio mondo.
A: Non crede, tuttavia, che per necessità il mondo del web abbia cambiato i paradigmi della comunicazione del mondo del lusso e dei divi?
C: Occorre analizzare quella che è stata l’evoluzione. Gli strumenti di comunicazione contemporanea impongono che ci sia una determinata vicinanza con il consumatore e/o lo spettatore. Però, nonostante questo, cercano comunque di mantenere una distanza e una superiorità. Pensi anche solo a ciò che sta accadendo in questi giorni…
A: Con l’emergenza del coronavirus, intende…
C: Esatto: non solo Fedez e Chiara Ferragni hanno raccolto 3 milioni di euro per l’ospedale San Raffaele di Milano, ma anche lo stesso Armani ha donato 1 milione e 125 mila euro a vari ospedali e alla Protezione Civile. Queste sono modalità, che oltre ad essere ovviamente benefiche e fare bene alla collettività, inevitabilmente vanno ad agevolare l’immagine delle parti. Lo possono fare per merito della disponibilità economica, della credibilità guadagnata, ma anche perché dimostrano di essere, in una qualche misura, superiori. Da una parte si ritrovano socialmente costretti a portare avanti queste iniziative positive, ma dall’altra sono utili a rimarcare la loro importanza all’interno della società.
A: Diventa, inevitabilmente, un’operazione di marketing.
C: Marketing etico, ma indubbiamente marketing, il quale è utile ad arricchire la loro immagine. Si crea sempre una sorta di ambiguità ogni volta che un brand o un personaggio noto affronta temi umanitari e sociali. Perché ogni operazione benefica diventa, inesorabilmente, un’operazione atta ad accrescere la percezione dei consumatori che ne sono, al contempo, destinatari e spettatori.
A: Tuttavia ci sono anche brand che si posizionano allo stesso livello dei consumatori. Come è successo per Piazza Italia che ha compiuto un’operazione di marketing molto interessante: ha deciso che i propri testimonial fossero semplici individui come operai, maestre, studenti, gente comune.
C: Le aziende, nelle loro attività commerciali, fanno spesso ricorso a tematiche sociali, che sono sia etiche che morali. Questo perché è ormai assodato che l’obbiettivo sia quello di avvicinarsi al consumatore, ed è un’operazione difficoltosa: un po’ perché per alcune realtà una certa distanza è giusto mantenerla, e un po’ perché gli individui sono bombardati da messaggi pubblicitari e catturare la loro attenzione non è così facile. Per cui ci si avvicina al consumatore parlando del suo mondo, e ogni marchio ha il proprio target: chi il lusso, chi altro.
A: E come ci si districa tra la necessità di parlare al consumatore e quella di mantenere una certa distanza?
C: La marca parla sempre ad un destinatario, ma ci sono vari modi in cui può farlo: può mantenere un linguaggio autoreferenziale, come accade per i brand del lusso, o può, differentemente, cercare di avvicinarcisi il più possibile, attraverso modalità orizzontali e paritarie. Come? Tramite tutti i mezzi di comunicazione di cui ogni realtà aziendale può avvalersi. Attraverso le narrazioni e i valori a cui decidono di aderire per modellarle su di sé e comunicarle al consumatore.
A: Quindi il consumatore, in un modo o nell’altro, viene sempre coinvolto.
C: Esatto. Il consumatore percepisce sempre qualcuno che vuole implicarlo, ma è anche consapevole del fatto che il messaggio può avvenire da un marchio che si pone al suo stesso livello o da un marchio che si pone ad un livello superiore utilizzando un linguaggio prettamente autoreferenziale. È un equilibrio difficile da raggiungere, ed è ciò a cui mirano tutti i marchi.
A: Questo è un processo fondamentale nella creazione quel proprio mondo della marca che attinge dal mondo concreto per poter edificare nuove realtà.
C: Definirei ciò come un processo di appropriazione: la marca prende qualcosa che già esiste, che fa parte della cultura sociale e quindi del singolo consumatore, e se ne appropria. Di fatto prende un pezzo di mondo e lo rielabora rifacendolo suo. Lévi-Strauss diceva che le culture lavorano per bricolage, ed è ciò che fanno le marche: prendono degli elementi esistenti, li rielaborano, e li ripetono nel tempo attraverso gli strumenti di comunicazione che possiedono. Così si crea il mondo della marca.
A: All’interno della mia Tesi mi sono permesso di definirlo l’Irreale Reale.
C: Non direi che è irreale in quanto risponde al mondo della cultura sociale, che allo stesso tempo è reale e irreale, materiale e immateriale.
A: Ogni marca, quindi, propone i propri valori, ma non rischiano di ripetersi?
C: Ricordi che ogni marca attinge dal proprio bagaglio culturale: Nike propone un valore individuale, molto americano, incentrato sull’atleta eroe, che ha a che vedere con l’autorealizzazione, la sfida con se stessi. Just do it è l’esempio perfetto. È il tuo successo personale che ricerchi. Adidas, al contrario, ha una strategia più sociale e collettiva, come è tradizione degli sport europei.
A: Qui tuttavia parliamo di grandi nomi e realtà imprenditoriali. Crede che anche le piccole realtà aziendali, con budget non troppo elevati, possano comunque creare una sorta di mondo della marca?
C: Indubbiamente. Si tratta dei modi che utilizzano per comunicare. In fondo il web è uno strumento potentissimo che a differenza del passato permette di raggiungere molte persone con investimenti contenuti. Anche la stampa è uno strumento relativamente economico che spesso non viene utilizzato nel modo più adeguato. Se si è in grado di sfruttare al meglio gli strumenti di comunicazione potenzialmente ogni marchio può creare il proprio mondo.
A: Crede perciò ci sia un equilibrio tra i beni di consumo offerti da un determinato marchio e ciò che esso ha comunicato? Tra i beni materiali e l’immaginario immateriale?
C: È difficile dire con precisione quale sia il peso tra l’una e l’altra parte, perché sono complementari e devono necessariamente stare assieme. Anzi: il prodotto è un prerequisito assolutamente fondamentale. Tuttavia non è più sufficiente, c’è bisogno di costruire un mondo di marca che coinvolga.
A: Seth Godin, autore de La mucca viola , sostiene però che spesso alcuni marchi investano somme ingenti sul marketing ma pochissime risorse sui prodotti, e, all’interno del suo scritto, ribadisce che un ottimo prodotto può avvalersi semplicemente del passaparola senza richiedere sproporzionate somme di denaro per la comunicazione: è d’accordo con questa affermazione?
C: No. È vero che ci sono casi molto rari in cui determinati prodotti sono inimitabili e insuperabili, come è accaduto per Nutella. Tuttavia è giusto ricordare che la stessa Ferrero ha investito moltissimo denaro negli anni per la comunicazione e per potersi posizionare al punto in cui si trova ora, cambiando, negli anni, diverse strategie. La comunicazione è un investimento. E Ferrero ha investito molto, magari non nel modo più congeniale possibile, ma comunque relativamente buono.
A: Chi crede che tra le aziende italiane abbia saputo valorizzare al meglio la comunicazione?
C: Diesel, forse l’unica da anni. Ha portato avanti campagne molto interessanti affacciandosi tra le prime al mondo del web e comunicando in maniera efficace. Ne sono un esempio i video virali ed il coinvolgimento con diversi influencers. Diesel trasmette da sempre un valore di unicità, di diversità, di libera espressione del sé. Ma non trovo molte altre aziende italiane che abbiano saputo sfruttare al meglio la comunicazione, e ciò è indegno per uno Stato come il nostro.
A: Secondo lei per quale motivo in Italia la comunicazione ha un livello così basso?
C: Perché non c’è una cultura di marketing a livello alto. Molto spesso si tratta di aziende familiari e di piccole realtà in cui è difficile trovare esperti di comunicazione. Prenda Tim, ad esempio. Da qualche anno sta portando avanti una nuova strategia di comunicazione attraverso un ballerino che danza sulle note di Mina, ma ciò è avvenuto dopo che sono subentrati i francesi nella proprietà.
A: Motta era stata molto funzionale attraverso la campagna dell’asteroide per Buondì, che ultimamente viene ripresa nella nuova campagna pubblicitaria. Il fatto che si ritrovino costretti a citare loro stessi non trova sia un segnale negativo?
C: Se un marchio non sa rinnovarsi ed è costretto ad attingere, in modo banale, a vecchie campagne, significa che qualcosa non va.
A: Quindi cosa rende una comunicazione efficace?
C: La novità, l’innovazione e la correttezza. Occorre comunicare ciò che realmente si può offrire al proprio consumatore e che fa parte di quei valori di cui abbiamo parlato prima. Ed è fondamentale tenere conto della società che cambia e dei valori che mutano. Come sta accadendo ora con i fatti ambientali, che diventano una nuova sfida per i diversi brand, soprattutto nel mondo della moda.
A: Ritiene quindi che il comportamento del consumatore sia mutato negli anni? Oggi è davvero più attento?
C: Non solo è più attento, ma è anche più scaltro. E questo è dovuto alla democratizzazione avvenuta tramite il web. Il consumatore ha maggiori possibilità di scelta e di informazione. Solo, in Italia, la comunicazione è decisamente inferiore rispetto ad altre realtà mondiali ed europee, come accade in Francia, in Spagna o negli Stati Uniti d’America.
A: Ad esempio il modo differente in cui comunica Fiat tra l’Italia e gli USA: in Italia il testimonial è Rovazzi, in America Clint Eastwood. Secondo lei per quale motivo?
C: È conseguenza del livello medio nel mercato. Se mi sposto in una nazione in cui il livello medio della comunicazione della concorrenza è più alto, è chiaro che mi debba adeguare e debba adeguare anche la mia comunicazione. Così è avvenuto per Fiat quando è sbarcata nel mondo americano. E quel mondo attinge da una cultura differente dalla nostra. Fiat si è semplicemente adeguata.
A: Ok, ora vorrei spostare l’intervista su altri binari culturali: la pubblicità può essere considerata arte?
C: No.
A: Ne è così convinto? In fondo tutta la storia dell’arte, a parte il romanticismo, come sostiene Giovanni Gastel, si è basata sulla commissione. A Michelangelo, come a Raffaello, venivano commissionati quadri ed opere che loro realizzavano. Anche Toscani, tutto sommato, ha fatto lo stesso.
C: È una vecchia storia, ma la pubblicità non può essere arte. Perché l’arte è espressione dell’artista, la pubblicità no. La pubblicità vuole ottenere risultati prima di tutto, e utilizza ogni mezzo a sua disposizione per poterlo fare. Toscani è a sé. E anche se ha avuto modo di esprimersi in modo molto libero, spesso Benetton ha dovuto scontare il prezzo di questa libertà. Come ricorderà è stata costretta a chiudere diversi negozi negli Stati Uniti dopo la campagna assieme a Toscani che riprendeva detenuti condannati a morte. Il marketing è molto vincolante e per questo non mi sento di dire che la pubblicità possa essere arte.
A: Comunque resta il fatto che sia Toscani che Richardson utilizzano strategie di comunicazione che mirano a shockare l’audience, ma in modi differenti. Toscani punta a parlare di tematiche sociali, Richardson si limita a creare scandalo. In che modo crede che queste due strategie siano utili?
C: La trasgressione fine a se stessa non è molto strategica, ma se questa tipologia di comunicazione aiuta a creare un mondo valoriale nel tempo allora può risultare utile. Lo stesso Richardson, collaborando con Sisley, negli anni ha aiutato a creare un certo mondo valoriale che ha funzionato. Chi vive in questo mondo si identifica, e chi pensa sia sbagliato lo rifiuta. Comunque sia rimane sui binari dell’ambiguità.
A: Il tempo a nostra disposizione è terminato. Grazie per le risposte che ha saputo darci.
C: È stato un piacere. Buona fortuna.
Di seguito sono elencati alcuni libri del professor Codeluppi che possono risultare utili per le vostre strategie di marketing e di comunicazione, comprendendo dapprima il contesto socio-culturale e poi le diverse strategie che si possono attuare per raggiungere i risultati più efficaci.
– Il potere della marca. Disney, McDonald’s, Nike e le altre
– La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società
– Dalla corte alla strada. Natura ed evoluzione sociale della moda
– Persuasi e felici? Come interpretare i messaggi della pubblicità
– Storia della pubblicità italiana
– Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre “vetrinizzazioni”
– Moda & pubblicità. Una storia illustrata
– Il tramonto della realtà. Come i media stanno trasformando le nostre vite